Le Recensioni di Antigone: Jacques Derrida,
Perdonare di Susanna Marietti
Jacques Derrida, Perdonare, Milano, Raffaello
Cortina editore, 2004, 106 pp.
Che cos’è il perdono? Che cosa significa
perdonare? Come si può, nel concreto dell’esperienza storica, perdonare l’altro?
Jacques Derrida – il filosofo francese scomparso lo scorso ottobre - si
interroga e ci interroga su questi temi, interroga le parole stesse del perdono,
le locuzioni che le lingue usano per chiedere e accordare il perdono, i concetti
affini o quelli che ruotano attorno all’esperienza del perdono. Il breve volume
Perdonare, uscito per l’editore Cortina nel 2004, ripropone il testo di alcuni
incontri di un seminario tenuto da Derrida per diversi anni all’Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales di Parigi, nonché presentato in varie conferenze in
giro per il mondo. Nel 1964, la Francia approvava la legge
sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, e negli anni a venire si
accendeva un ampio dibattito sull’argomento. Il perdono ha a che fare con la
prescrizione? L’imprescrittibile ha la stessa estensione dell’imperdonabile? O
non è piuttosto, il perdono, un concetto che non incontra affatto la logica del
penale, che non ha niente a che vedere con l’ambito del giuridico, del
regolamentato, del pubblico? Il perdono si può accordare da una collettività a
una collettività, o non presuppone piuttosto la riservatezza e la privatezza di
un faccia a faccia? Da quando, nel 1945, è nato a Norimberga il concetto di
crimine contro l’umanità, si è assistito a proclamazioni pubbliche di pentimento
(di stato, di chiesa, di corporazione) e a richieste collettive di perdono.
Prendendo duramente posizione nel dibattito pubblico, Vladimir Jankélévitch
afferma l’impossibilità di perdonare i crimini hitleriani, confine storico
ultimo della storia del perdono, limite insuperabile e inespiabile che eccede la
misura umana e per il quale mai potrà esserci punizione proporzionata. Il
perdono, per Jankélévitch, è dunque qualcosa che prende parte a un normale
scambio tra uomini, scambio nel quale la possibilità di infliggere una pena è ad
esso correlata e nel quale anche la richiesta esplicita di perdono deve essere
contemplata. I tedeschi, dice Jankélévitch a ulteriore rafforzamento della sua
tesi, non hanno mai chiesto perdono, non hanno mai manifestato una coscienza
della loro colpa che non fosse un tentativo malcelato di autogiustificazione.
Commentando il saggio di Jankélévitch, Derrida propone un rivolgimento totale
del punto di vista. Il perdono, forse, non è affatto cosa umana, vale a dire che
non è cosa che debba entrare in un commercio tra gli uomini. Il perdono fa capo
a un’etica che Derrida qualifica come iperbolica, sola possibilità di rompere la
gabbia aporetica che è esso stesso a costruire. C’è una contraddizione nel
concetto di perdono, ed è proprio questa contraddizione che lo rende un concetto
fondante della società umana: sembrerebbe infatti che per perdonare io debba
comprendere la colpa dell’altro, e dunque calarmi nella sua situazione, mettermi
al suo posto, accettare la consapevolezza che avrei potuto commettere il
medesimo errore, e in questo modo annullare l’altro, renderlo me stesso,
riempire la distanza tra lui e me, e così rendere inutile il perdono. Invece, il
perdono presuppone il mantenimento di tale distanza, e quindi l’incomprensione
dell’altro, e da qui l’impossibilità di perdonarlo. Il perdono è impossibile.
Non c’è perdono se si resta tra le cose umane. Bisogna uscire dalla logica dello
scambio, accettare in un certo senso l’impossibilità del perdono, accettare
l’imperdonabile, e accettare che si dia perdono solamente là dove non si dà
commercio, solamente là dove il perdono non è richiesto, dove non si prospetta
la punizione e non si mira alla riabilitazione. Il perdono fonda il
riconoscimento dell’altro, ne diventa la precondizione. «Al principio ci sarà
stata la parola “perdono”», dice Derrida. Al principio di ogni convivenza, deve
esserci la possibilità di riconoscere una pluralità di soggetti. Il perdono è la
soglia che tiene insieme la distanza dall’altro, e dunque la possibilità di
essere in due, e la non assolutizzazione di tale distanza, la capacità di
entrare in relazione con l’altro, e dunque, di nuovo, la possibilità di essere
in due. Al principio di ogni rivolgersi all’altro, di ogni parlare e di ogni
scrivere, c’è un atto di perdono richiesto e accordato. Lo stesso atto con il
quale si apre il testo di Derrida.
Susanna Marietti |